C'è una parola che torna ossessivamente in questi giorni di tensione tra Bruxelles e Washington: dazio.
Un termine antico, che evoca confini, dogane, barriere. Ma oggi il dazio non è solo una tassa sui beni che attraversano le frontiere. È diventato il simbolo di una sfida geopolitica senza precedenti, uno strumento di ricatto e una misura di quanto l’Europa sia disposta a cedere per evitare lo scontro con gli Stati Uniti di Donald Trump.
La strategia del ricatto
Il presidente americano ha alzato la posta: dal primo agosto scatteranno dazi pesantissimi sui prodotti europei, un’arma economica che punta a piegare la resistenza dell’Unione e a minarne la coesione interna. La Commissione europea, per ora, ha scelto la via della cautela: ha sospeso il primo pacchetto di contromisure da 21 miliardi e ha "congelato" un secondo pacchetto, ridotto da 95 a 72 miliardi in un disperato tentativo di appeasement.
Il cosiddetto "bazooka" europeo — uno strumento di coercizione che potrebbe colpire al cuore l’industria americana dei servizi, in particolare i giganti tech — resta sul tavolo, ma inutilizzato. Agitarlo significherebbe ammettere che la guerra commerciale è già iniziata.
Il dilemma dell’Europa
Tra le capitali europee regna la confusione. Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Grecia spingono per un’azione dura, evocando il meccanismo anticoercizione. Germania e Italia, preoccupate per le esportazioni, frenano. Nessuno vuole un’escalation, ma nessuno sa davvero come fermarla.
E mentre il tempo scorre verso la scadenza del primo agosto, la minaccia di Trump appare sempre più come una sfida totale, non solo economica.
Oltre il confine dei dazi
In questa partita, il dazio non è solo un ostacolo commerciale: è un simbolo. È il prezzo che l’Europa paga per le sue indecisioni, per i compromessi infiniti, per quella «adolescenza geopolitica» che Giuliano Noci, sul Sole 24 Ore, descrive come una perenne ricerca di consenso anche quando si viene presi a schiaffi.
Il dazio diventa, allora, la misura della nostra vulnerabilità. La tassa che paghiamo per non avere una politica estera forte, per non saper difendere i nostri standard digitali e alimentari, per non riuscire a fare fronte comune.
La spaccatura interna
Dietro le quinte, le spinte centrifughe si moltiplicano. Alcuni suggeriscono di "fare il deal" da soli con gli Usa, seguendo l’esempio della Brexit. Ma sarebbe la fine dell’Unione europea, un ritorno a una logica di vassallaggi bilaterali che Trump sogna e alimenta.
Il ministro Tajani, insieme a Giorgia Meloni, sembra voler resistere. Ma la tensione è altissima. La premier è attesa a una prova decisiva, che segnerà la sua eredità politica: scegliere tra sottomettersi ai ricatti o lanciare finalmente un segnale di forza.
La parola chiave: assertività
Economisti come Kenneth Rogoff e Olivier Blanchard avvertono che la guerra commerciale è già iniziata. Non è più questione di "se", ma di "come" reagire.
Blanchard parla di "rappresaglie intelligenti": colpire prodotto per prodotto, selezionando ciò che danneggia di più gli Stati Uniti e meno l’Europa. Una strategia chirurgica, che presuppone coraggio e unità.
Il dazio come specchio
Il dazio, dunque, diventa specchio della nostra identità europea. Ci ricorda che non possiamo più nasconderci dietro un mito di neutralità o di gentilezza diplomatica. La guerra commerciale non è una guerra di armi, ma di visioni.
Cedere significa rinunciare a standard, diritti, dignità. Resistere, invece, può aprire la strada a nuove alleanze globali, come quella con i Paesi del CPTPP, e a una rinascita del ruolo geopolitico europeo.
Un bivio storico
Siamo di fronte a un bivio: continuare a pagare il dazio, inteso non solo come tariffa, ma come tributo simbolico alla supremazia americana, oppure trasformare la minaccia in occasione per diventare finalmente adulti.
Non è solo un tema di economia o di export. È una questione di visione e di coraggio. E questa volta, a differenza di altre crisi, l'Europa non potrà più permettersi di restare in pigiama mentre il bullo di turno devasta il cortile comune.
